Quando meno disoccupati non
significa più occupati.
Non lavorare stanca e allora si parte...
Dietro la diminuzione dei
disoccupati del Sulcis Iglesiente si cela l'amara realtà
dell'emigrazione forzata.
Per la prima volta, dopo 20 anni, nel Sulcis, diminuisce il
numero degli operai in cerca di lavoro.
C’è da credere che i disoccupati siano in diminuzione e gli
occupati in crescita? No, purtroppo no.
La realtà che si cela dietro questi dati raccolti dai Centri
per il Lavoro (Uffici di Collocamento) di Carbonia ed Iglesias, e’ piuttosto
la amara emigrazione.
Nessun passo avanti, quindi. Ma bensì passi indietro, a
ritroso fino agli anni ’60.
La domanda di lavoro è aumentata, e la offerta invece no.
L’encefalogramma del mercato del lavoro continua ad essere
piatto. Carlo Macioccu, direttore dell’Ufficio, e’ duro e
spigoloso: “Non si avverte nulla, neppure il più debole
segnale di ripresa dell’economia e, quindi,
dell’occupazione”. Il dato della diminuzione dei disoccupati
che aveva fatto gridare al miracolo è derivato da un
censimento compiuto al 30 giugno 2001 in 17 comuni del Sulcis che
fanno capo all’Ufficio circoscrizionale di Carbonia. Allora i
disoccupati risultavano essere poco più di 18 mila, 1321 in
meno rispetto all’ultimo rilevamento del 31 dicembre 1999.
La verità è invece dura da digerire: non solo infatti
dietro queste cifre virtuali si nasconde la provvisorietà del
lavoro stagionale (molti giovani trovano lavoro durante
l’estate e poi a ottobre sono di nuovo disoccupati), ma, fatto
ancor più grave, c’è l’emigrazione, alla quale sono
costretti a ricorrere tutti coloro che sono stanchi di non
lavorare.
Quindi il calcolo e’ presto fatto: più stagionali ed
emigrati fa meno disoccupati. Ma fa anche crisi economica più acuta. Sulcis Iglesiente sempre
più spopolato.
Le vittime del mobbing: donne e "flessibili".
Lo ha sottolineato il procuratore aggiunto di Torino,
Raffaele Guariniello, sulla base di un anno di denunce
pervenute in Procura. “Contiamo decine
e decine di casi – ha detto Guariniello -. Le
vittime sono in maggioranza donne e le molestie sessuali
sono piuttosto diffuse».
Settore pubblico e settore privato sono ugualmente colpiti
da questa patologia, anche se, ha detto il magistrato, nelle
aziende private “ci sono comportamenti di maggior
peso giudiziario, come le
minacce e la violenza” . Piccole e medie aziende
forniscono gli esempi peggiori di vessazioni dei dipendenti.
Il dilagare del fenomeno preoccupa in modo particolare le
associazioni sindacali, impegnate da poco più di un anno
sul fronte del mobbing. Sono stati istituiti sportelli di
consulenza e avviate iniziative di formazione. La
regione Lazio ha approvato nei giorni scorsi una legge per
prevenire e contrastare il fenomeno. Che prevede, fra
l'altro, l'istituzione di un osservatorio regionale, la
definizione dei comportamenti vessatori, l'istituzione di
uno sportello anti-mobbing nelle Asl, corsi rivolti ai
rappresentanti sindacali. Tutte strategie utili per
contribuire a diffondere una nuova cultura, e scardinare
atteggiamenti odiosi volti ad “eliminare” una persona
divenuta scomoda, cercando di indurla alle dimissioni.
Aspetti particolari della situazione sono quelli denunciati
dall’associazione “Risorse”, creata da una decina di
ex vittime del mobbing, che ha già registrato trecento casi
di maltrattamenti di vario tipo. A volte si tratta di problemi
risolvibili sindacalmente , senza arrivare alle aule
del tribunale. Nella fase pre-giudiziaria il numero più
elevato di casi è nel pubblico, soprattutto nella scuola e
nella pubblica amministrazione, ma non mancano i
metalmeccanici. Si
abbassa l’età media dei lavoratori che chiedono
aiuto che, in alcuni casi, in conseguenza delle violenze
psicologiche e fisiche a cui sono sottoposti, soffrono anche
di patologie gravi. Sono i «malati»
della flessibilità , assunti con contratti a
termine, poi allontanati senza alcuna spiegazione o privati
delle più elementari condizioni per lavorare.
Nove
anziani su dieci non vogliono smettere di
lavorare
Primo
a scagliare la pietra, in primavera, era stato
il governo di Tony Blair, l'Italia aveva seguito
a ruota. In gioco, la cancellazione dell'età
pensionabile: una manna per i disastrosi conti
della previdenza sociale.
Gli anziani non ci stanno a essere messi da parte. Nove su
dieci vogliono continuare a lavorare.
Durante l'estate, poi, era arrivato un provvedimento di
attuazione della finanziaria, che sembra preparare la strada
alla liberalizzazione dell'età pensionabile e che prevede
un premio per i dipendenti del settore privato che rinviano
la pensione di anzianità e rinunciano alla copertura
contributiva, continuando a lavorare. Al dibattito, ancora
aperto, si aggiunge adesso la voce dei diretti interessati.
Riuniti a Riva del Garda, i rappresentanti del popolo della
Terza Età si interrogano in questi giorni sul proprio ruolo
nella società. Oggi si vive più a lungo e meglio in salute
e gli anziani rappresentano una fetta crescente della
popolazione. Vogliono vivere una vita attiva, lavorare,
studiare, viaggiare, magari impegnarsi nel volontariato.
Vogliono che la società si accorga del loro crescente peso,
che li consideri una risorsa da utilizzare e non un soggetto
debole da tutelare.
Gli anziani, oltretutto, sono oggi un soggetto economico
importante, sia come consumatori, sia come supporto
all'economia familiare. In consumi e contributi a nuove
imprese, muovono un giro d'affari di 160mila miliardi di
lire l'anno, pari al 15% del totale delle spese delle
famiglie italiane. In media, gli anziani "passano"
4 milioni l'anno ai figli adulti e un milione 400 mila lire
ai nipoti per le spese quotidiane. Tutti dati contenuti nel
rapporto "Essere anziano oggi", curato
dall'istituto Ermeneia, che ha intervistato 1.300 soggetti e
ha presentato i risultati della ricerca alla seconda
edizione di "Golden Age. Forum internazionale sulla
Terza età", organizzato dall'Associazione 50 Più-Fenacom/Confcommercio.
In cambio del loro contributo all'economia nazionale, gli
anziani chiedono alle istituzioni politiche che consentano
loro una vita ancora attiva (93,2%). Per questo (86,6% delle
interviste) chiedono l'abbattimento delle attuali barriere
che impediscono di raggiungere la pensione in maniera
"personalizzata"; di disincentivare i
pre-pensionamenti (82,4%) e anzi allungare l'età
pensionabile (74,1%); di eliminare il divieto di cumulo
pensione-reddito (80,4%). Tanti gli
"irriducibili", che chiedono azioni straordinarie
di formazione, come quelle previste per i giovani o gli
adulti che devono trovare un nuovo lavoro, dopo l'eventuale
perdita di quello precedente. A leggere i numeri, la fetta
più attiva della popolazione sono proprio loro: per il
65,5% è indispensabile che il governo promuova l'avvio di
nuove imprese da parte degli anziani.
Aumenta il distacco con i paesi meno sviluppati
Uno su tre è senza lavoro o
sottoccupato: un miliardo di persone nel mondo, un terzo della
forza lavoro, vive in condizioni precarie e con scarse
protezioni sociali. E' questo il dato più impressionante che
emerge dal World labour report 2001 dell'Organizzazione
internazionale del lavoro (Oil). I senza lavoro dichiarati sono
circa 160 milioni (50 nei paesi industrializzati) e circa 500
milioni di persone guadagnano meno di un dollaro al giorno.
Globalizzazione e liberalizzazione dei mercati, secondo il
Rapporto, hanno creato insicurezza e indotto "una crescente
disoccupazione e sottoccupazione che espone una gran massa di
lavoratori, soprattutto donne, a bassi salari e precarie
condizioni di lavoro". Il Rapporto esamina anche
l'insoddisfacente stato delle protezioni sociali di fronte
"ai cambiamenti strutturali della famiglia e ai trend
demografici che hanno provocato nuovi bisogni e imposto nuove
costrizioni".
Nel prossimo decennio, di fronte
alla bassa natività dei paesi industrializzati, si prevede che
i due terzi dei giovani che entreranno nel mercato del lavoro
saranno asiatici. Per assorbire questa domanda di lavoro il
rapporto stima che l'economia dovrebbe creare almeno 500 milioni
di posti, il ché richiederebbe un tasso di sviluppo almeno pari
a quello attuale per i prossimi anni.
Negli andamenti
globali dell’occupazione c’è stata una sola rilevante
inversione di tendenza, quella dei paesi OCSE, dove si sono
ridotte le percentuali di disoccupazione a due cifre della metà
degli anni novanta e tra i disoccupati quelli di lunga durata
sono diminuiti dal 35 al (quasi) 31 per cento.
Sempre nei paesi
OCSE, sul totale della forza lavoro, tra il 1990 e il 1999 il
lavoro part time è aumentato dal 14 al 16 per cento (dal 13 al
16 nei paesi EU), e quello a termine dal 10 al 12 nei dodici
paesi dell’Unione Europea di cui sono disponibili i dati.
Aumenta anche il lavoro non contrattualizzato e precario,
soprattutto nei paesi che stanno liberalizzando economie e
mercati del lavoro.
Il lavoro autonomo
cresce a una velocità maggiore rispetto al lavoro dipendente.
Il dato medio rimane intorno al 12 per cento, ma se negli Stati
Uniti il lavoro autonomo occupa solo il 7 per cento della forza
lavoro, in Italia la percentuale raggiunge quota 23 per cento
(25 in Turchia, Corea e America Latina; 26 nel Messico).
Aumenta il divario
digitale
Tende ad aumentare il divario tra
le economie ad alta tecnologia e i paesi poco o affatto
sviluppati, alimentando la forbice tra il lavoro clandestino o
semilegale estremamente mobile nei paesi e tra i diversi paesi a
fronte di una occupazione trainata dalla new economy. Mentre
quindi si prevede un aumento delle migrazioni in cerca di
lavoro, si calcola che entro il 2003 nei paesi sviluppati
gli occupati nei call center passeranno dagli attuali 670 mila a
un milione e 300 mila.
La tecnologia dell'informazione
tende quindi ad approfondire le differenze tra paesi
ricchi e poveri: le nuove tecnologie sono appannaggio del 15 per
cento della popolazione mondiale mentre solo la metà della
popolazione mondiale usufruisce di luce elettrica e telefono.
Se, infatti, negli Stati Uniti e nell'Unione europea è
disponibile una linea telefonica ogni due abitanti, i 739
milioni di abitanti dell'Africa possono contare su appena 14
milioni di telefoni (ossia c'è una linea telefonica ogni 52
abitanti).
Il villaggio globale
in realtà ha al suo interno confini insormontabili: malgrado la
crescita esponenziale dell'uso dei computer meno del sei per
cento della popolazione mondiale si connette alla rete mentre il
flusso degli accessi è coperto per l'88 per cento dai paesi
industrializzati (57 per cento Stati Uniti e Canada).
L’impatto dell’ICT sulla qualità della vita nei paesi meno
sviluppati sarà quindi recepito molto debolmente, sostiene il
Rapporto, in mancanza di politiche nazionali coerenti, di
investimenti sulle infrastrutture e per la formazione delle
risorse umane. Viceversa, ove questo mix si realizzasse, paesi
anche molto diversi tra loro potrebbero raggiungere e mantenere
propri solidi spazi di mercato.
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